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La Turchia e le rivolte arabe: tra ambizioni e incognite

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Mentre si ridisegnano gli equilibri della sponda meridionale del Mediterraneo, sono in molti a guardare alla Turchia come modello per i futuri assetti. Inizialmente contraria all’intervento in Libia, la Turchia è entrata in gioco come attore protagonista svolgendo oggi un ruolo fondamentale di mediazione. Un’opportunità attraente per la Turchia dell’AKP che, come pilastro del dialogo tra mondo arabo e Occidente, potrebbe conquistare un’importanza strategica indiscussa nel maturare a pieno quello slancio multi – vettoriale che da diversi anni caratterizza la politica estera turca.

L’ambito ruolo di attore multi – regionale

Quando la Grande Assemblea Nazionale negò il passaggio delle truppe dirette in Iraq attraverso il suolo turco, gli occhi del mondo erano puntati su Ankara. Fu il primo passo di quella spinta autonomista della politica estera turca in Medio Oriente che ha visto gli Stati Uniti osservare con disappunto e timore il principale interlocutore del mondo musulmano muoversi secondo proprie logiche, in un contesto in cui la crisi strutturale della superpotenza mondiale è ormai palese.

Per la Turchia è il momento della stratejik derinlik, ossia della dottrina della profondità strategica dell’attuale Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu; una linea politica in cui il richiamo alla comune appartenenza alla religione musulmana e ai legami storici si combina al pragmatismo dello zero problems con i paesi vicini.
Quali le ambizioni? Dall’indomani della Guerra Fredda, la cui conclusione ha “liberato” la Turchia dal ruolo di guardiana di confine, Ankara è impegnata in un processo di ridefinizione della propria identità geopolitica in qualità di attore multi – regionale, determinato ad estendere la propria influenza a molteplici spazi d’azione. Dopo la corsa alla competizione nei giochi energetici dell’Asia Centrale, dove le ambizioni geopolitiche di Ankara erano state in passato benevolmente spalleggiate da Washington in funzione anti-iraniana e anti-russa, è la volta del Medio Oriente.
Se è vero che il ritorno della Turchia nella regione, dopo un lungo periodo di diffidenze reciproche, può essere considerato uno sviluppo di importanza storica, gli eventi a cui stiamo assistendo ci impongono una doverosa riflessione sulle reali potenzialità del ruolo di Ankara nel più ampio scacchiere mediterraneo.

La Turchia e le rivolte arabe

Dopo la pronta reazione alla rivolta in Egitto, durante la quale Erdoğan non ha esitato a chiedere a Mubarak di dimettersi immediatamente e di accogliere le istanze del suo popolo, la posizione turca rispetto alla guerra in Libia ha vacillato. Con le elezioni parlamentari alle porte e migliaia di cittadini turchi sul suolo libico, Erdoğan ha inizialmente dichiarato “Cosa ha da fare la Nato in Libia?” per poi ripiegare su una posizione favorevole ad un intervento a condizione che l’azione si svolga sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica. Tutto ciò mentre il leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu, dopo aver espresso ufficialmente consenso all’intervento, aveva accusato le potenze europee di voler bypassare la Turchia in un contesto in cui le spetterebbe un ruolo da protagonista. Questa volta la Turchia, si è mossa con passi incerti cercando di mantenere un atteggiamento prudente proprio perché consapevole degli interessi in gioco. Il protagonismo della Francia, notoriamente contraria all’ingresso della Turchia nell’UE, e lo spettro di un’eventuale transizione guidata da Sarkozy, dipinto come il leader di una crociata anti Gheddafi, hanno innalzato criticamente per Ankara il rischio di una non partecipazione. Una Libia in cui gli investimenti turchi ammontano a miliardi di dollari è uno spazio geopolitico troppo importante per la Turchia per permettere che scivoli nella mani francesi. Il governo dell’AKP, pur opponendosi fermamente ad un’azione di terra, ha deciso quindi di prendere parte alle operazioni militari mettendo a disposizione delle forze Nato cinque navi, un sottomarino e uno squadrone di jet da combattimento. Parallelamente, attraverso gli interventi umanitari e gli sforzi della “diplomazia telefonica” di Erdoğan, che recentemente ha coinvolto anche il leader siriano Al-Assad, si è cercato di sottolineare la natura soft dell’intervento della Turchia che, ponendosi come dimostrazione ontologica della possibile combinazione tra islam e democrazia, ambisce al ruolo di “fonte di ispirazione” per i popoli arabi.
Così si cerca di compensare alle contraddizioni di una politica regionale che, fino ad’ora, aveva fatto della generale opposizione all’intervento il suo pilastro fondante con la conseguenza, sul piano interno, di creare una rischiosa sinergia tra andamento delle azioni in Libia, consenso dell’opinione pubblica ed esito delle elezioni parlamentari.

Quali opportunità per Ankara?

Parlare di “fonte di ispirazione” è senz’altro più prudente che parlare di un “modello turco”, ed Erdoğan ha dimostrato di esserne consapevole. Quella di “un modello turco” è un’ambizione superficiale che non tiene conto della soggettività dell’esperienza storica turca né tantomeno di alcune realtà che meriterebbero meno entusiasmi e una maggiore osservazione critica. Il ruolo che internet ha avuto nella mobilitazione dei popoli arabi dovrebbe suscitare una certa riflessione sulle capacità della Turchia, dove circa 3.500 siti internet sono stati banditi dal governo, di rapportarsi alle società arabe. Al tempo stesso, spostando lo sguardo verso il Cairo, il governo dell’AKP, per la seconda volta al potere per aver scalzato l’élite militare, dovrebbe accorgersi del fatto che è l’esercito il vero protagonista del processo di transizione in Egitto. Le possibilità di un Egitto democratico guidato dai Fratelli Musulmani sul modello dell’AKP sono ancora legate alle incognite di una transizione da cui potrebbe risultare un Egitto ancor meno cooperativo rispetto alla Turchia di quello di Mubarak.
Quali le opportunità? Il ruolo della Turchia nella regione è un fatto riconosciuto. Negli anni precedenti Ankara ha lavorato sul piano bilaterale per la costruzione di un’area di influenza attraverso scambi di visite ufficiali, accordi commerciali, progetti economici e accordi per l’abolizione dei visti di ingresso. Ankara ha utilizzato tutto il suo softpower nella creazione di una rete di relazioni economiche e politiche tali da rafforzare la sua posizione ed è innegabile che continuerà ad avere un ruolo di primo piano nella regione. Tuttavia, nella doverosa necessità di elaborare chiari obiettivi politici di lungo termine, le trasformazioni in corso rappresentano una dura sfida per il governo turco: una sfida che va dalla capacità stessa di rapportarsi ai cambiamenti, allo sviluppo di un dialogo coerente con i paesi e le società arabe fino all’intricato rapporto con il vicino sciita, sui cui si concentrano i principali sforzi diplomatici ma a cui, tuttavia, Ankara continua ancora a guardare con preoccupazione.

Un banco di prova per il dialogo Turchia – UE

Nonostante il sentimento di frustrazione e diffidenza caratterizzante l’annoso processo di adesione, la Turchia del “partito bianco” [1] continuerà a guardare all’Ue finché il processo di europeizzazione sarà strumentale alla lotta politica interna. Tuttavia, questa prospettiva rassicurante non va data per scontata. Il dialogo Turchia – UE ha bisogno di rifondarsi su nuovi paradigmi che prescindano dal reiterato imperativo di “agganciare la Turchia all’Occidente” e che comportino una riflessione critica all’interno della stessa UE su cosa vuole essere. In quest’ottica, i mutamenti in corso nel Vicino e Medio Oriente rappresentano un fondamentale banco di prova: gli equilibri della sponda sud del Mediterraneo si stanno ridisegnando e dalla direzione di questi mutamenti dipendono condizioni di stabilità e sicurezza che riguardano da vicino l’UE tanto quanto la Turchia. Un’azione condivisa in questo contesto, potrebbe contribuire a rivitalizzare un dialogo che altrimenti rischia di arenarsi criticamente più di quanto non lo sia già sollevando scenari futuribili poco desiderabili, innanzitutto per l’UE.

*Irene Compagnone è dottoressa in Relazioni e Politiche Internazionali (Università Orientale di Napoli)

[1] Il partito al governo, notoriamente noto come AKP (Adelet ve Kalkınma Partisi – Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), viene preferibilmente denominato dallo stesso Erdoğan AK Parti dove “AK” in turco sta per “bianco”. Tale espressione, adottata anche nel sito ufficiale del partito www.akparti.gov.tr, si basa sul gioco di parole “partito bianco” quindi “pulito”.
“AK Parti mi, AKP mi?”, Habertürk, 5 giugno 2008, http://www.haberturk.com/polemik/haber/151231-ak-parti-mi-akp-mi


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